In Joker, il regista Phillips Todd compie un’improvvisa svolta nella sua produzione cinematografica, che dalla commedia (Starsky & Hutch, Parto col folle, la trilogia di Una notte da leoni) passa alla tragedia. Tale svolta non si identifica solamente in un cambio stilistico, ma è intrinsecamente presente nella trama del film, condensata nell’ossimoro di Joker, un comico-criminale. Quella di Todd non è una virata contraddittoria, poiché il comico si fonda sempre sul tragico.
Ne Il motto di Spirito, Freud ci ricorda come l’umorismo sia un modo per riuscire a dire qualcosa di insopportabile e traumatico e che attraverso lo humor si può aggirare la censura del Super-Io. Il regista si toglie il velo della comicità per occuparsi del vero oggetto dei sui film, che è un oggetto tragico. Nella pellicola, Todd si rivela capace di trattare le torsioni della psiche umana, in un film che per certi aspetti ricorda i lavori di Von Trier.

Il Joker di Todd si interroga sulle origini del protagonista, lo stesso tipo di interrogativo che rappresenterà la congiuntura di scatenamento della psicosi di Arthur Fleck, alias Joker. Si tratta dunque dell’eziopatogenesi di un personaggio noto al grande pubblico, il folle criminale nemico di Batman.
Il tema delle origini sembra essere diventato un leitmotiv della filmografia contemporanea, che porta spesso a una messa in discussione del personaggio per come lo si conosceva. In questi prequels si svelano fatti, traumi e vicende che producono una risignificazione del protagonista che non è più tutto buono o cattivo, ma diventa una figura più complessa, sfumata e ambivalente. Joker scardina il purismo della dicotomia “buoni vs cattivi” che è il motore dei film della DC e della Marvel, dove l’identificazione all’eroe e la disidentificazione dal nemico producono due identità immaginarie rigide e contrapposte su cui non c’è alcun dubbio.
Questa polarizzazione divide la realtà in due e istituisce un confine netto tra le parti che dissolve ogni dubbio morale. In questo modo, il supposto “buono” si può trincerare narcisisticamente nella sua identità di eroe e sentirsi deresponsabilizzato in quanto possibile agente causativo di ciò che identifica come nemico, così da autolegittimarsi a debellarlo.
Il film scompagina questa ipersemplificazione immaginaria della realtà e rimette al centro un reale ben più complesso e articolato, che non ha nulla a che vedere con la questione del “far passare per buono il cattivo”, posizione che invocherebbe ancora una volta un ritorno a categorie dicotomiche. Al termine della visione si provano sentimenti ambivalenti per un Joker che non è più il cattivo-e-basta, ma diventa una figura più complessa, senza che questo implichi una giustificazione dei suoi crimini.

Il protagonista, Arthur Fleck, si barcamena nel tentativo di essere un comico, identità che si istituisce da bambino in seno alle parole materne “put on a happy face” e si alimenta grazie dall’idolo Franklin Murray, un comico e presentatore da cui Arthur spera di essere riconosciuto e invitato in trasmissione. Il protagonista vive in una condizione di precarietà socio-economica assieme alla madre vecchia e malata, nelle periferie di una Ghotam in degrado. È affetto da una patologia psichiatrica che, tra le altre cose, gli causa una risata involontaria che prende spesso il sopravvento. Le cose si complicano ulteriormente quando perde il misero lavoro da clown e tagliano i fondi ai servizi sociali che lo seguono. Anche la speranza di svelare l’identità del padre mai conosciuto si frantuma nello scoprire che si trattava di un delirio erotomaniacale della madre adottiva.
Sulla scia di questi e altri drammi si scatena la psicosi di Arthur Fleck, in una escalation di delirio e violenza. Figlio di nessuno e rimasto senza niente, il protagonista diviene lo scarto di una società che lo ha abbandonato, relegandone il malessere nel degrado della periferia. Joker rappresenta così il ritorno di un rimosso che scompagina la quiete della società borghese, il ritorno di una follia che non si lascia segregare. Arthur la vittima, l’oggetto scarto disprezzato dall’Altro, rammenda la sua esistenza attraverso Joker che, come accade spesso nella paranoia, trasforma quell’ideale che lo denigra (il presentatore Franklin Murray) in un persecutore da eliminare, passando da vittima a carnefice.
Come potrebbe suggerire Lacan, Joker diventa il sinthomo di Arthur, una supplenza che gli permette di farsi un nome attraverso cui ricucire un’esistenza divenuta altrimenti insostenibile. Allo stesso modo in cui il corpo di Joker è invaso da un godimento ingovernabile – la risata -, egli stesso si espande (e si moltiplica attraverso gli insorgenti con le maschere da clown) come spinta pulsionale ingovernabile dall’io-sociale (le forze dell’ordine che vengono sempre sopraffatte). Così la pulsione diventa un treno carico di insorgenti che dalla clandestinità della periferia punta verso i grattacieli dal centro città per creare il caos. Tutto ciò mostra ancora una volta come l’io-forza-di-volontà non sia padrone del proprio corpo, come la questione della pulsione non sia il governo, ma semmai la forma e l’oggetto attraverso cui si soddisfa.

A un certo punto, a fare da contraltare è la figura del giovanissimo Bruce Wayne, che assiste all’assassinio dei suoi genitori e dal cui trauma, attraverso un percorso resiliente, diverrà Batman. Dunque due traumi, quelli di Arthur e quello di Bruce, che hanno prodotto due soggetti molto diversi, Joker e Batman. Cos’ha permesso due soggettivazioni così differenti della sofferenza? Cosa ne sarebbe stato di Joker se il suo Altro-sociale non ne avesse fatto di lui uno scarto? Il Joker di Todd provoca la coscienza collettiva su chi si identifica come il nemico, l’altro immaginario da tenere segregato nelle periferie del mondo e del cui corpo temiamo un’invasione pulsionale che creerebbe il caos nella quiete borghese delle nostre vite.