La domanda è il punto d’avvio di qualsiasi percorso di terapia: davanti a un malessere che non riusciamo a risolvere da soli, ci rivolgiamo a qualcuno che dovrebbe essere in grado di aiutarci. Pertanto la domanda è il primissimo elemento con cui abbiamo a che fare (sia per il terapeuta che per il paziente) quando iniziamo un percorso di cura. Su questo tema, possiamo distinguere tre tipi di domande: la domanda d’aiuto; la domanda di cura; la domanda di sapere.
Come cercheremo di vedere, a prescindere da quale sia la domanda di partenza, è importante che nel corso di una terapia si riesca ad approdare all’ultima delle tre, la domanda di sapere, e che il lavoro psicoterapico si orienti su di essa.

DOMANDA D’AIUTO
Molte volte, quando accusiamo un malessere fisico o psichico, i primi soggetti a cui ci rivolgiamo sono familiari o amici. Si tratta di persone con cui c’è un’intimità e una fiducia sufficienti per riuscire a prendere la parola su quanto sta accadendo. Si tratta innanzitutto di trovare ascolto, empatia e contenimento rispetto all’angoscia che si genera a partire dal problema accusato. Potremmo dire che la domanda d’aiuto è mossa da un sentimento di disperazione che cerca di essere alleviato prima possibile. Questo tipo di domanda, indifferenziata e generica, invoca una prima forma d’aiuto (ascolto, consolazione, contenimento, supporto, riconoscimento), ma non è sufficiente a una definitiva risoluzione, poiché i soggetti a cui si indirizza non dispongono di un sapere necessario a trattare il problema. Un esempio di tutto ciò è quando sfogarsi con qualcuno produce un allentamento emotivo momentaneo, ma non una risoluzione stabile.
DOMANDA DI CURA
La domanda di cura verte sul fatto che non siamo in grado di curarci autonomamente, né attraverso interlocutori (come familiari o amici) che non dispongono di un sapere necessario per comprendere e trattare il nostro malessere. Diversamente, la domanda di cura si indirizza verso un professionista supposto detenere un sapere sui nostri sintomi e, da parte del soggetto, si traduce in una maggiore tolleranza di tempo e disponibilità d’impegno, rispetto all’urgenza della domanda d’aiuto.
La domanda di cura è ciò che in medicina permette il passaggio dal sintomo al segno: mi rivolgo a un medico descrivendo i sintomi (ovvero le manifestazioni dirette, percepibili e comprensibili di un malessere) e quest’ultimo li traduce in segni (ovvero traduce i sintomi soggettivi in segni oggettivi di una malattia specifica), sulla base dei quali formula una diagnosi e prescrive un trattamento. La domanda di cura si articola dunque sul modello medico-paziente o sintomo-segno, e i suoi aspetti cruciali sono tre: il rapporto tra un malessere e un sapere specialistico; il fatto che questo sapere è eterodiretto (viene dall’esterno-professionista); la relazione asimmetrica medico-paziente.

Questo modello funziona perfettamente quando si tratta di una malattia organica, ma presenta delle problematiche quando si tratta di un disagio psichico. Quando un disturbo mentale si manifesta nel corpo (attacco di panico, disturbo alimentare, somatizzazione) si tende a rivolgersi a uno specialista che si occupi del punto in cui il disturbo si manifesta (in questo caso il corpo), e dunque ci si rivolge perlopiù al medico. Il medico tratterà i sintomi corporei (trasformati in segni) e non il soggetto, quindi la prescrizione di un farmaco non avrà nulla a che vedere con la persona, la cui particolarità non è implicata nella malattia. Utilizzando la visione dualista cartesiana (che separa mente e corpo come due sostanze divise), potremmo dire che a livello della domanda di cura si chiede l’intervento di un sapere medico esterno che si orienta sul corpo, senza implicare alcun aspetto soggettivo come elemento necessario alla cura. In una psicoterapia la domanda di cura si traduce nell’aspettativa che il terapeuta spieghi al paziente il suo malessere e ne abbia la soluzione, ovvero gli dica che cosa deve fare per stare bene.
DOMANDA DI SAPERE
La domanda di sapere è quell’interrogativo fondamentale a cui si deve approdare nel corso di una psicoterapia affinché possa innescarsi un effettivo processo di cambiamento. La domanda di sapere verte su un assunto fondamentale del disagio psichico: ciascuno, consciamente o inconsciamente, è implicato – ha una quota di responsabilità – nel malessere di cui soffre. Tipicamente, un soggetto che inizia una terapia si colloca in una posizione passiva, come vittima di un sintomo che lo tormenta (es. attacco di panico, disfunzione sessuale) o di un “altro” (es. partner, collega) con cui le cose non funzionano.
Nel primo caso si tratta dunque della pervasività ingovernabile del sintomo e, nel secondo, dell’altrettanta ingovernabilità dell’“altro”, il cui rapporto si struttura in modo problematico (un partner infedele, un capo aggressivo, un familiare assente). Un individuo può esperire queste situazioni come qualcosa “che gli capita”, attribuendo a un agente esterno la sola causalità del problema. Analogamente alla domanda di cura, a questo stadio il soggetto non è direttamente implicato rispetto a ciò che gli accade, come se potesse solo subire/patire un sintomo o un “altro”.

Affinché una terapia possa effettivamente iniziare (e questo potrebbe non coincidere con l’inizio cronologico), occorre che si compia ciò che lo psicoanalista Jacques Lacan chiama “rettifica soggettiva”: finché un individuo non si interroga rispetto alle proprie responsabilità – al proprio ruolo – nei confronti di ciò che gli accade, non potrà mai completamente smarcarsi da quello stesso accadere. Si tratta di un cambio di prospettiva di radicale importanza. Come scrive lo psicoanalista Francesco Giglio:
“a differenza del sintomo medico che può sorgere senza la responsabilità del paziente e che, dunque, può essere guarito con le sole prescrizioni del curante […] il sintomo psichico implica sempre una postura disfunzionale soggettiva.”
Il soggetto è dunque – “senza eccezione” continua Giglio – responsabile dei suoi sintomi psichici. Ad esempio, nel caso di un paziente che parla dei ripetuti tradimenti del partner, non si tratterà tanto di focalizzarsi sul lamento e sulla condanna morale di questo comportamento (con la speranza immaginaria che attraverso tutto ciò il partner – che non è presente in terapia – possa cambiare), quanto del perché il paziente resti invischiato in quella relazione anziché chiuderla. Oppure, come nel caso di un paziente che sviluppava allergie in ogni nuovo sport che faceva, sotto imposizione del padre, si tratta di considerare come il sintomo allergico sia funzionale a interrompere – in modo impersonale/indiretto – qualcosa che il paziente non vuole fare, senza tuttavia confrontarsi direttamente col padre.
Questi esempi mostrano un processo che dovrebbe svolgersi all’interno di una psicoterapia. Perché si inneschi un effettivo cambiamento occorre che il soggetto abbandoni la ricerca di una causalità esterna, impersonale ed oggettiva (che sola spiegherebbe il suo malessere), e inizi a esplorare la sua storia, i suoi significati, i suoi sentimenti per districarsi da una situazione di cui egli stesso, quanto meno, è concausa. A questo punto il miraggio del terapeuta supposto detenere la chiave di volta della vita di un individuo svanisce, e si rivela piuttosto come un direttore d’orchestra (direttore della cura), ma a suonare, come così come a dirigere la propria vita, non può che essere il paziente.